Il riciclo, da abitudine casalinga a politica industriale
Solo il recupero e il riutilizzo delle materie prime può sottrarre l’Italia alle difficoltà nell’approvvigionamento. Per centrare questo obiettivo serve però l’approvazione di una legge nazionale sull’End of Waste
Forse non tutti sanno che in Italia esistono impianti per la produzione di energia elettrica con una capacità complessiva di 1,2 Gw alimentati con olio di palma. Se rientrate fra coloro che non ne hanno mai sentito parlare siete più che giustificati: da diversi anni queste centrali sono infatti spente, nonostante la loro costruzione sia abbastanza recente ed abbia comportato un investimento di circa 2 miliardi di euro.
Il problema è che l’olio di palma – e qui sorvoliamo sull’opportunità di utilizzarlo come combustibile – ha raggiunto prezzi che non rendono più redditizio il suo impiego per la produzione di energia. L’industria della cosmesi ha infatti iniziato a usarlo in maniera sempre più massiccia, facendone schizzare alle stelle il costo. E questo nonostante l’industria dolciaria occidentale ne abbia ridotto l’utilizzo (perché è un grasso saturo, cioè un grasso “che fa male”).
L’olio di palma, che arriva in gran parte dall’Indonesia e dalla Malesia, è un perfetto esempio delle tensioni che stanno facendo registrare le materie prime e dei danni che da queste possono derivare. Già, perché petrolio ed oro, pur essendo di gran lunga le più conosciute, non sono di certo le uniche. Anzi, le materie prime i cui andamenti sono seguiti solo dagli addetti ai lavori sono proprio quelle dove lo sbilanciamento di domanda ed offerta, ovviamente a favore della prima, sta facendo sentire in modo più drammatico il proprio effetto.
Affidarsi al libero mercato internazionale per l’approvvigionamento delle materie prime è ormai diventata una strategia semplicemente troppo rischiosa e che in alcuni casi non funziona proprio, come nel caso dell’olio di palma. L’approccio deve essere diverso e, per quanto possa sembrare strano, una soluzione ce l’abbiamo già a portata di mano. Si chiama “riciclo”
Quella che fino ad oggi è stata vista come un’abitudine virtuosa del consumatore per ridurre l’inquinamento dell’ambiente deve diventare una strategia industriale per la sopravvivenza delle economie occidentali. Una strategia tutt’altro che semplice da implementare ed alla quale non viene data la priorità che merita.
Quello che ancora manca per vedere anche in campo industriale gli incoraggianti risultati che si stanno già registrando nella raccolta differenziata casalinga è una cornice normativa efficiente e certa. Infatti non solo non esistono regole comuni a livello di Unione Europea, ma addirittura ogni regione italiana va per conto suo.
La legge sull’End of Waste, ovvero quella norma che stabilisce a quali condizioni un rifiuto cessa di essere tale al termine del processo di riciclo e può quindi essere reimmesso sul mercato, deve diventare una priorità del governo nazionale. Da troppo tempo se ne attende il varo. Non è infatti pensabile che qualcosa che sia ancora un rifiuto a Milano non lo sia più a Roma e in quanto tale rivendibile. Per di più con differenze inspiegabili fra rifiuto e rifiuto e addirittura con autorizzazioni per operare concesse ad hoc a singole imprese.
In un contesto del genere l’operatività delle imprese del settore del riciclaggio è estremamente lenta, complessa e costosa. Va da sé che gli investimenti in nuovi impianti siano praticamente azzerati perché nessun buon imprenditore si avventurerebbe in iniziative per le quali non è materialmente possibile stimare i ritorni.
E invece questa tipologia di investimenti andrebbe non solo favorita ma anche incentivata perché, come ha dimostrato il caso delle Evergreen (se ancora ce ne fosse stato bisogno), basta una nave messa di traverso per mandare in fibrillazione il mercato mondiale delle materie prime.